"Benvenuto in mia casa. Entrate e lasciate un po' della felicità che recate"
(Dracula)

sabato 1 dicembre 2012

Le mie parole

Nota: Questo è il racconto col quale ho partecipato al progetto "Roba da scrittori - L'ombra dell'ignoto" (maggiori informazioni qui) dal titolo "Le mie parole".  È strutturato come un diario e dunque verrà aggiornato come tale.


Giorno 1
Ogni volta che apro gli occhi è una sfida, un inizio, una dichiarazione di guerra al Fato. Oggi più che mai; mi sono svegliato in una specie di cubicolo dalle pareti bianche, spoglio e spartano: il letto in un angolo, di fronte una dispensa con del cibo pronto da mangiare, un bagno riparato da mura sottili e nell’ultimo angolo una finestra, con sotto uno scrittoio su cui fanno bella mostra di sé un quaderno e una penna. Se proprio devo affrontare una specie di reclusione, almeno potrò farlo nel modo che mi piace di più: scrivendo.


Giorno 4
Ho provato a scrivere di tutto, ma temo che i risultati siano in realtà abbastanza mediocri: l’Ispirazione mi corteggia, mi ride in faccia e se ne va, l’Idea mi accarezza con una mano e mi schiaffeggia con l’altra; ed il fatto che ci sia una sola finestra non aiuta, per niente. È tutto uguale e identico a sé stesso: sui monti lontani il sole e la luna giocano a rincorrersi, muovendo le ombre e poco altro; di tanto in tanto il vento si prende gioco degli sparuti alberi fischiando qualche motivo malinconico. Scrivere così non è poi facile come credevo. Temo perderò la mia battaglia.



Giorno 6
Ho cominciato a strappare le pagine e a buttarle dalla finestra, gran brutto segno. Sento ogni strappo come una ferita sulla mia stessa pelle e l’inchiostro che spreco così mi dissangua. Devo fare qualcosa, ma quello che ho scritto è oggettivamente illeggibile:

«Le immutabili stagioni
mi pugnalano nel tempo
e perdono di me
le ore non viste
Sopravvivrò a me stesso?
Non voglio».


Giorno 10
Sto giocando con me stesso al gatto col topo: sto assottigliando questo quaderno senza concludere niente di buono. Lascio solo le pagine con questo strano diario, forse con l’idea di lasciare qualche segno di me. Ma, ora che ci penso, anche questa è un’idea stupida: chi mai leggerà ciò che scrivo? È strano: per tutta la vita ho scritto col timore che qualcuno mi leggesse e mi stroncasse i sogni, ora che vorrei farmi vedere nessuno poserà mai gli occhi sulle mie parole. Comincio a considerarmi ridicolo, passo dopo passo perdo la mia guerra e persino me stesso.


Giorno 13
Ho bisogno di vedere altro, sto impazzendo! La Fantasia mi ignora, non vuole aiutarmi, il paesaggio sempre identico mi sta annichilendo. So che sembra ridicolo, ma le pareti sono bianche come un foglio di carta, forse posso provare a disegnarci qualcosa, non so.


Giorno 14
Inutile, pure un po’ pacchiano. Ho provato a disegnare una sorta di prolungamento del paesaggio vicino la finestra. Disegno in modo semplicemente inguardabile. Sono sgorbi, scarabocchi. È addirittura peggio di prima. Non so come mi sia potuta venire in mente un’idea tanto ridicola: io scrivo, non disegno. Ridicolo, assolutamente ridicolo. Fortunatamente sono solo e sono l’unico a poter ridere di me stesso. Anche se nelle orecchie qualche risata giurerei d’averla sentita…


Giorno 18
Il quaderno è visibilmente ridotto, sarà circa la metà, forse anche meno. Gli ultimi versi che ho buttato giù recitano:

«Ma se al calar del giorno
la notte ci mancasse?
Se le tenebre codarde
volassero via come le rondini?
Potrebbe il mondo
vivere lo stesso?
Ed io, perso in un mondo dentro me,
potrei?»

Forse non sono male, ma non so più che pensare. Sento decisamente che qualcosa mi manca, e questa assenza mi colpisce con violenza. Sapessi almeno cosa fosse, maledizione!


Giorno 22

È il mondo. Mi manca il mondo. Impossibile da credere, ma penso sia proprio così. Altrimenti non posso spiegarmi quel tentativo ridicolo col disegno sui muri. Solo ora capisco che è il mondo - il mio mondo - a crearmi, a plasmare me e quello che scrivo. E ora che un mondo non c’è? Che posso fare?


Giorno 25

Ho sempre creduto che fossero le parole a creare il mondo. Forse non è così, non lo so più. O forse è esattamente il contrario, sono le parole a dipendere dal mondo. Lo dimostrerebbe il fatto che ora non riesco a scrivere niente di decente. Non credo riuscirò a resistere a me stesso per molto ancora.


Giorno 27
Le pagine del quaderno sono ormai pochissime, devo trovare un modo per preservarle. Forse posso riprovare col muro: stavolta, invece di scarabocchiarlo, posso scriverci qualcosa, anche se non ho idea di cosa.


Giorno 29

«Libertà – Amore – Silenzio – Fantasia – Dolore – Coraggio – Felicità – Solitudine – Calore – Mancanza – Dubbio – Sogno». Queste sono solo alcune delle parole che ho scritto sul muro. È strano: è come se mi sentissi meglio, leggero come il mare che ha deciso di ballare col vento in un abbraccio sottile. Non so se tutto questo abbia un senso, in fondo sono solo parole, eppure hanno cambiato qualcosa. Proverò a continuare.


Giorno 31

«Parola», sul muro ho scritto “Parola”, ed il mio mondo è cambiato: d’un tratto li ho visti, tutti i concetti che le parole ci mostrano, ed allora ho capito che sono loro – le parole – la nostra più grande ricchezza. Disegnano e creano il mondo che non vediamo, ma lo rendono tangibile, vero, vivo: non si tocca l’Amore, il Silenzio o il Sogno, ma sappiamo cosa sono perché ci sono le rispettive parole. Le parole sono tutto, e per chi vuole scrivere non c’è tesoro maggiore.
Ho sentito un rumore, ho visto che di fianco alla finestra s’è aperto un uscio che prima non c’era. Porterò con me questo strano diario, per ricordarmi sempre che con le mie parole conquisto ogni giorno la mia libertà.



P.S.
Come avrete potuto notare questo non è un racconto canonico, vira decisamente e pericolosamente verso il filosofico; è pieno zeppo delle cose che ho studiato. Ho sempre pensato che sia normale che quando si scrive qualcosa ci si inserisca dentro qualcosa che ci appartiene, ma al contempo ho altrettanto sempre sostenuto che quando metti quello che studi in quello che scrivi forse è il caso di smettere con una delle due attività. Visto che ho dovuto (almeno momentaneamente) smettere di studiare, ho deciso di continuare a scrivere. Regolatevi voi di conseguenza...
Questo racconto non ha vere e proprie dediche perché contrariamente a molte cose che ho scritto non ha una "Musa" di riferimento.  È un racconto che nasce "a progetto", ma è un progetto di amici, quelli di "Roba da Scrittori" e del "Salotto Letterario Virtuale". Alle persone che ho conosciuto lì devo questo racconto e la parte di me che vi è connessa; se vogliamo rispettare l'etichetta potremmo dire che è dedicato a loro, ma per come la vedo io non ce ne sarebbe bisogno: questo racconto gli appartiene già.


Mario Iaquinta

domenica 9 settembre 2012

Quella volta che non ho visto De André

Molte persone hanno l’abitudine di ascoltare lo stesso disco ogni volta che vivono un momento particolare, che si tratti di gioia, tristezza, commozione, ecc; conosco chi mette “The Dark side of the moon” dei Pink Floyd, chi ascolta Bob Marley e chi Dylan.
Il mio rituale invece è questo: metto su un DVD che, come è facile intuire, è di De André: “Fabrizio De André in concerto”, registrato il 13 e 14 febbraio 1998 al Teatro Brancaccio di Roma durante il suo ultimo tour teatrale “Mi innamoravo di tutto”. Vedere e ascoltare l’artista che per me significa molto mi emoziona ogni volta, ma ogni volta affiora una specie di piccolo rimpianto: io quel concerto avrei potuto vederlo dal vivo.
Beh, non esattamente quello del Brancaccio, ma un altro, quello della prima data. Quel concerto si tenne il 13 gennaio in un cineteatro a 800 metri da casa mia, ma avevo dieci anni e naturalmente da solo non potevo andare. L’occasione sfumò.
Fu un peccato, per me che già allora conoscevo gran parte delle sue canzoni a memoria, forse non comprendendole pienamente, ma già per me molto affascinanti. Mi consolai dicendomi che avrei avuto altre occasioni in futuro, quando sarei stato più grande.
Fabrizio De André morì un anno dopo, nel gennaio del 1999. Da allora è stato un susseguirsi di riconoscimenti e omaggi, per me sono stati oltre dieci anni di un personalissimo culto al quale è mancato e mancherà per sempre il culmine che nel 1998 era a portata di mano ma che mi si sciolse fra le dita.
A distanza di dieci anni ho assistito al concerto-omaggio del figlio Cristiano, “De André canta “De André”, che si tenne in quello stesso teatro, ma è un “risarcimento” solo parziale.

Mi consolano un paio di pensieri: il primo è che lo stesso De André non ebbe mai modo di incontrare un suo idolo e ispiratore, “il suo maestro” Georges Brassens; il secondo lo condivido con un altro fan di De André, Wim Wenders: «In qualche modo ero felice che restasse questo remoto angelo, santo della musica italiana».




C’è qualcosa di romantico in un pensiero del genere: è giusto che il mito rimanga mito e non venga in qualche modo scalfito dalla visione della persona che lo incarna, perché il rischio di rimanere delusi nel vedere che si tratta di un uomo normalissimo come noi è elevatissimo.


«Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O Anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile.»
- Fabrizio De André


Mario Iaquinta

martedì 10 luglio 2012

A prova di proiettile

«Le idee sono a prova di proiettile.»



La frase, che credo molti di voi abbiano riconosciuto, è tratta da “V for Vendetta”. Parlo della graphic novel, non del film. Dando per assodato che il film sia una gran bella opera, vorrei appunto spostare il focus sul lavoro originale disegnato da David Lloyd ma soprattutto scritto dall’amatissimo Alan Moore.
In questi giorni ho riletto la graphic novel ed è stato come assaporare un grande romanzo. Dopo tutto, l’espressione “graphic novel” significa “romanzo illustrato”.
Questo genere di opere è secondo me paragonabile a pieno titolo ai romanzi veri e propri, soprattutto quando si parla di maestri del genere come sono, giusto per fare due nomi, Frank Miller e Alan Moore. Oltre alla struttura tipica delle produzioni letterarie, come una storia ben definita e autoconclusiva, nelle migliori produzioni si riscontrano elementi degni di nota. Soprattutto la produzione di Alan Moore trovo affascinante (infatti egli è anche romanziere puro), con la costruzione di trame e personaggi in chiaroscuro dalla vivacità sorprendente, con risvolti e temi che superano il mero svago, ma aprono a riflessioni profonde, esattamente come dovrebbero sempre fare i romanzi.
In “V for Vendetta”, oltre alla figura carismatica di V che cattura il lettore, si aprono finestre per concetti e pensieri decisamente interessanti (basti pensare a quando V sull’Old Bailey parla con la “Signora Giustizia”, rinfacciandole un tradimento col Potere e dicendo di avare un nuovo amore, l’Anarchia – intesa nel senso più puro del termine). Discorsi simili valgono, d’altra parte, anche per “Watchmen”, sempre di Moore, o per “Il ritorno del Cavaliere Oscuro” di Frank Miller.
Allora, miei cari e sparuti lettori, la prossima volta che vedete qualcuno leggere un fumetto non etichettatelo come “sfigato” a prima vista. Potrebbe leggere un romanzo di caratura molto superiore a quanto gira adesso, soprattutto visti i vari Voli che vibrano veloci vicino a noi.


Mario Iaquinta

venerdì 15 giugno 2012

Un riempitivo e un finto atto d'accusa

Come si può facilmente capire, questo post non ha senso. O meglio: un senso ce l’ha, ma se ne poteva fare anche a meno. È un riempitivo, serve solo a non lasciare vuoto uno spazio che se non colmato comincia a dare fastidio. Infatti, è da un mese e qualcosa che qui non scrivo niente e per non far morire la pratica dello scrivere ogni tanto tocca mettersi a tavolino e strizzare il cervello; se poi quello che esce fa schifo poco importa, almeno si mantiene in moto qualcosa che se abbandonata si sarebbe estinta.
È il periodo del classico “blocco dello scrittore”, il problema è che ho il “blocco” ma non sono uno “scrittore”…
Tante idee mi ronzano in mente, ogni tanto si scontrano e fanno qualche scintilla, ma non riesco a venire a capo di trame e storie, dunque pazienza. La miglior cosa da fare in periodi come questi e prendersi una pausa, leggere qualcosa, scrivere fesserie come queste per non perdere l’abitudine.

Il problema sono le rose. Qui siamo al finto atto d'accusa.
Già, perché quello che mi viene in mente gira intorno alle rose, fiore che non mi è mai piaciuto moltissimo. La rosa è il fiore più – passatemi il termine – sputtanato della storia dell’universo e la cosa non mi attira. Ma ci sono sempre ‘ste maledette rose, indipendentemente da come giro la situazione. Però le rose sono belle, più o meno oggettivamente, e quindi meglio così che con i fiori di zucca…

Bene, ho scritto la cretinata che dovevo. Spero di farvi avere a breve mie notizie, con qualcosa di utile.
Me se riesco a comprare un libro, “quel” libro, mi divertirò a scrivere di nuovo qui.
Mi sto già leccando “le dita dei baffi”, come diceva Felice Caccamo.

Mario Iaquinta
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